La scuola ai tempi del coronavirus


Domenica 23 febbraio il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e il Ministro della Salute Roberto Speranza con un’ordinanza regionale hanno disposto che le scuole della Lombardia rimanessero chiuse fino al primo di Marzo. Sappiamo poi come è andata a finire. Nessuno, prima di questa pandemia, avrebbe mai immaginato che le scuole sarebbero state chiuse per un tempo più lungo dei tre mesi delle vacanze estive e tanto meno che ci saremmo trovati a fare i conti con la DAD. Dal 26 ottobre, dopo un mese e mezzo di didattica alternata, siamo tornati a stare a casa e a seguire le lezioni da dietro lo schermo del nostro computer. Tra chi è d’accordo con la decisione di non frequentare in presenza, chi sostiene l’alternanza tra DAD e scuola e chi invece si fa promotore di un ritorno completo alla didattica tradizionale le posizioni degli Italiani sono molto diverse e tutti noi, chi in modo più approfondito chi meno, le conosciamo (con tanto di ragioni e motivazioni annesse).
Si sarebbe dovuto fare di più? Quali sono le priorità del nostro Paese? L’economia? La salute? L’istruzione? Le domande che sorgono sono molte e le possibilità di risposta altrettante. Resta interessante al fine di valutare la situazione in Italia chiedersi anche: nel resto del mondo, invece, come è stata gestita la scuola ai tempi del coronavirus?

In Spagna, come da noi, gli studenti sono tornati tra i banchi di scuola a settembre, ma con l’avvento della seconda ondata si sono trovati costretti ad intraprendere la didattica alternata. Questo ha scatenato numerose proteste in Galizia, Andalusia e nell’area di Valencia dove soprattutto chi frequenta l’ultimo anno di superiori ha lamentato una possibile disparità futura in ambito lavorativo rispetto ai coetanei europei che stanno frequentando la scuola in presenza.
Alla posizione opposta troviamo il Regno Unito dove Boris Johnson, primo ministro della Nazione, nonostante il lockdown in vigore fino al 5 dicembre ha stabilito che i ragazzi continuino ad andare a scuola. Rimangono pur sempre da mantenere le dovute cautele: distanza di almeno 2 metri, ricambio d’aria ed obbligo di igienizzarsi le mani. Per quanto riguarda il portare o meno la mascherina questo sta a discrezione delle singole scuole, escluse le secondarie delle zone rosse nelle quali vige l’obbligo di tenerla anche durante le ore di lezione.
Similmente in Francia, pur essendo in corso un lockdown, le scuole rimangono aperte per scelta del Ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer che in un tweet le ha definite “il cuore della vita del Paese”, così come il britannico Johnson ha dichiarato che “non possiamo permetterci che questo virus distrugga il futuro dei nostri figli più di quanto non abbia già fatto” e la Merkel da Berlino ha più volte ribadito “l’importanza suprema dell’educazione”. Infatti anche in Germania, dove i cittadini dal 2 novembre sono entrati di nuovo in lockdown, seppur questo più leggero rispetto a quello di Marzo, le scuole sono rimaste aperte. Fondamentale sottolineare come in entrambi i Paesi (Francia e Germania) le misure di prevenzione siano rigide, dal momento che di evidenze scientifiche che mostrino chiaramente l’incidenza delle scuole per quanto riguarda il complessivo andamento dei contagi non ce ne sono ancora e quindi non si possa effettivamente sapere se queste possano costituire focolai significativi oppure no. La principale ragione che ha condotto la Merkel e Blanquer a propendere per la riapertura totale delle scuole è stato un recente studio della Commissione Europea che ha dimostrato che in Francia, Italia e Germania la didattica a distanza durante la primavera avrebbe comportato una perdita dell’apprendimento che va dallo 0.8 al 2.3% settimanale, oltre che naturalmente influire negativamente sullo stato psicologico e relazionale dei ragazzi.
Spostandoci dal Vecchio Continente ed andando ad indagare la situazione del Paese che è stato l’epicentro della pandemia, la Cina, vediamo come, anche in questo caso, l’approccio del Presidente Xi Jinping sia stato rigido. Infatti i 200 milioni di studenti tornati nelle aule sono ora sottoposti ad un controllo rigorosissimo da parte di ispettori e di tecnologie apposite piuttosto pervasive nei confronti loro e di insegnanti e personale scolastico.
Anche in Corea del Sud le scuole sono riaperte, tuttavia, a differenza della Cina, le misure messe in pratica si possono senza dubbi definire democratiche: mascherine fornite direttamente dal governo, scanner per la temperatura all’ingresso di ogni aula, gel igienizzante, distanza tra i banchi e lezioni da casa per gli studenti con sintomi.
Al contrario di questi Paesi negli Stati Uniti il governo centrale non ha fornito istruzioni precise ma ha preferito lasciare alla discrezione dei singoli Stati la decisione di come far ripartire il sistema scolastico. L’ultimo aggiornamento viene da New York dove, come annunciato dal sindaco Bill de Blasio, dal 19 novembre le scuole sono state chiuse a seguito di un ulteriore aumento dei contagi.
A Taiwan, invece, le scuole non si sono mai fermate. Questo grazie all’efficace sistema di contact tracing messo in atto fin da subito da parte del governo. Si pensi che su una popolazione di 24 milioni di abitanti soltanto 6 sono morti di Covid-19 ed i contagi totali sono stati 382. Taiwan si classifica quindi tra i Paesi che hanno saputo dare la migliore risposta al diffondersi del virus.

A febbraio quando il covid è entrato nelle nostre vite nessuno poteva prevederlo e dunque non c’era la pretesa che il Governo sapesse come muoversi. Ma adesso, che di mesi ne sono passati nove da quel lontano 23 febbraio, si può accettare che la scuola e l’istruzione nel Bel Paese rimangano sempre in fondo? Che gli studenti e gli insegnanti siano i primi ad essere lasciati a casa nonostante le evidenti ripercussioni che questo ha sulla loro preparazione e sul loro stato emotivo? Che rispetto a nove mesi fa non sia cambiato niente?
Io credo di no.

30/11/2020

Articolo a cura di

Rebecca Spadone

IL BANFO

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