Apologia del barocco


Non me lo sentirete mai ripetere in pubblico, ma è proprio tutta colpa del Greco.
Questa volta sì, una piccola, innocua parolina del mio idioma preferito ha innescato una reazione a catena ingovernabile, che ha finito per ingurgitare, per disintegrare un’intera fase della cultura occidentale. Ve la presento subito: è il verbo αισθάνομαι, aisthànomai, che potremmo tradurre come “sentire”, “percepire”, in senso autenticamente e nudamente fisico, ma anche come “capire”, “intuire”, a un più alto grado di astrazione. Un vocabolo suggestivo, forte, capace di dar vita nella nostra lingua a un termine tanto complesso e polisemico da risolversi poi in un pugno di vento, in un nulla di afferrabile, o affidabile. Che cosa sarà mai, davvero, l’ “estetica”?
Stando alla radice etimologica, l’estetica è percezione. Punto. È il modo in cui i nostri neuroni sensoriali cercano di capire che cosa diamine li stia sollecitando, il modo spaventosamente soggettivo e limitato in cui elaboriamo la realtà nei pochi centimetri cubi della nostra testa. Però, insegna fior fiore di filosofi parrucconi, la forza della rappresentazione soggettiva è dirompente quanto poco altro al mondo, ci porta perfino a chiederci se esista davvero un mondo al di là dell’idea che ce ne facciamo noi, se chiudendo gli occhi tutto stia ancora là o evapori subito nella destabilizzante anche se attraente dimensione del vuoto.
Lo sguardo umano, anche e soprattutto lo sguardo mentale, è altamente condizionante, ma soprattutto è inevitabile; e, se uscire dal nostro corpo e dalla nostra mente per sentire sensazioni altre è impossibile, tanto vale allora focalizzarci su come queste ci siano utili per vivere, effettivamente, nel mondo che contempliamo, per dare un ordine e un senso a tutto. Ed è per questo che “estetica”, o ancora meglio il suo gemello inglese “aesthetic”, viene poi, oggi, a significare anche concezione personale di bellezza, gusto secondo il quale si vuole regolare ciò che si guarda. Estetica è regola, estetica è ricerca, di sé nel mondo e del mondo nel sé. Da sempre.
E sarebbe tutto vero, se non fosse per il Barocco. Corpo estraneo ai tradizionali canoni dell’estetica, il movimento artistico e culturale che ha permeato il Vecchio Continente per oltre un secolo viene successivamente rigettato dalla posterità, che è dall’estetica dominata e della quale anche l’epoca presente, l’epoca dominata dall’ istantaneità fotografica, fa ben parte. Il barocco è antiestetico, in più di un senso, è senza schemi, senza sicurezze, senza mani da stringere per non perdere l’equilibrio. E non è nemmeno un qualcosa che possa intimamente piacere, non ha nulla di individualistico o d’ interiore, è pura esteriorità pubblicata, gridata, resa di tutti e di nessuno.
La pittura, la scultura, la poesia, la musica o il teatro barocchi devono essenzialmente suscitare un’arcana, animale e perciò condivisa meraviglia dinanzi al mistero della vita e della morte.
Lasciamo che questa meraviglia s’impossessi delle nostre molli viscere, lasciamo che il θαυμαστόν di aristotelica memoria trasudi a distanza di secoli dalle parole di Emanuele Tesauro, letterato torinese del primo Seicento: “Dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli.”
Insomma, le ingenue malie del barocco si giocano su un terreno molto scoperto: sommergere l’anima con una molteplicità di forme, di suoni, di oro puro, fino ad alienarla dal suo stesso essere, fino a renderla incapace di pensare, solo di ammirare. Ci dà quasi la nausea, un’operazione artistica e mistica così volgare, così vuota, uno specchio incapace di riflettere altro che sé stesso. Vorremmo qualcosa di più. Ne avremmo bisogno.
Ma, forse, c’è realmente qualcosa di più? Sì. C’è.
Il tripudio assordante del barocco altro non è che la copertura di un grande silenzio. Vi siete mai chiesti cosa ci sia, sul palcoscenico, dietro alla cortina color rubino, quando cala il sipario, quando l’ultima nota cessa di vibrare nell’aria? Nulla. L’abisso, la morte. Eppure, ma come?, il tendone è immenso, arriva al cielo, è ricamato d’oro, è fatto del pesante velluto di chissà quali Paesi lontani. Ma è proprio per questo che è così adatto a nascondere le cose. La bellezza deve celare, deve neutralizzare, deve curare. Deve trasmettere il messaggio che, finché si resta pietrificati davanti alle pennellate di luce e di sangue di un Caravaggio o alla carne marmorea del Bernini, la morte non è reale, o, per lo meno, se lo sarà forse in un giorno grigio di secoli futuri, non lo è certo qui e ora, non esiste certo in un puro presente perfetto. L’arte è vita, l’arte è immortalità.
Ma, un attimo, considerate la vostra semenza. Non facciate, non facciamo, l’errore di pensare che il barocco concepisca arte e bellezza come una mera cura palliativa, come una benda con cui coprirsi gli occhi mentre il male della morte corrode dall’interno il corpo e la coscienza. Il barocco non scappa dalla morte: la vince dopo averla contemplata, accarezzata, accolta. Dopo averla compresa. La morte trova infatti nell’ Arte uno spazio d’espressione inimmaginabile, se solo ci si mette alla ricerca dei giusti indizi. Le nature morte, i paesaggi, perfino i nudi che campeggiano infarciti di poesia sui pallidi muri dei musei ci sorridono e bisbigliano perfidi anatemi. Vieni con noi! Tu non sei altro che carne, florida oggi e putrida domani, memento mori, γνώθι σαυτόν, we end the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to.
In ogni lingua il barocco racconta la realtà peritura dell’uomo, l’ombra mortifera che si stende ai suoi piedi, in un chiaroscuro che non lascia nulla all’immaginazione: le tavole ospitano primizie e vegetali putrescenti, i corpi sono impietosamente realistici nelle ferite, le figure di Santi si affiancano a quelle di lugubri scheletri nei medesimi gruppi scultorei.
Il significato ultimo della corrente (se di corrente possiamo parlare) è quello di non prestare ascolto al canto ipnotico del piacere terreno, che, come un’iridescente sirena, illude l’uomo attirandolo incosciente verso la dannazione. A riprova di quanto affermo, le parole che il futuro Papa Urbano VIII appose in cartiglio al capolavoro berniniano di Apollo e Dafne: “Colui che ama e insegue i godimenti della bellezza fugace rimane con un pugno di foglie, o al massimo coglie bacche amare”.
Ma che cosa, allora, deve inseguire l’uomo? Il Barocco ci ha saturati e colmati solo per poi spolparci fino all’osso, per lasciarci orfani indifesi e vedovi inconsolabili della corporeità. E quindi? Forse è allo spirito che si deve guardare? Forse a Dio? Forse.
Di certo questo è quanto vorrebbero facessimo gli uomini del diciassettesimo secolo. Noi possiamo scegliere di ascoltarli o no. Ma non possiamo scegliere di non pensare: alla vita, alla morte, a Dio, alla luce che formicola e fruttifica, non vista, in qualche sacrilega bettola in rovina.

04/02/2022

Articolo a cura di

Maddalena Mandelli

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