Nudo e intoccabile: il corpo femminile difeso nel mito


Ebbene, ecco l’articolo con il quale mi attirerò cariche all’acido nitrico non solo da parte di femministi e maschilisti allo stesso tempo, ma anche dell’intera e alquanto pugnace schiera (ero tentata di usare la parola “zoo”) dei classicisti e degli studiosi dell’antichità. Perché avrei intenzione di parlarvi di come, sotto certi aspetti e non senza un certo, magari improprio, lavoro di interpretazione, la mitologia greca non sia estranea a un senso di difesa della libertà della donna, di come essa venga onorata e perfino sacralizzata.
Ma, un attimo, non stiamo parlando di una civiltà che negava completamente la personalità giuridica al sesso femminile? Sì. Di un mondo dove una ragazza della mia età avrebbe passato le giornate a tessere in casa, controllando che i bambini non passassero troppo tempo a smanettare colle tavolette di argilla, e uscendo solo se accompagnata? Ma senza dubbio. La misoginia (e vi prego di distinguere questo concetto da quello del “semplice” sessismo) greca è proverbiale, assolutamente veritiera e oggi intollerabile. Però.
Però tentiamo, per un attimo, di evadere dalla realtà storica che stiamo esaminando per intrufolarci dal buco della serratura nell’ancestrale mondo della mitologia, che pur tuttavia sempre da quella realtà storica è stato prodotto.
E troviamo così un’estesa, forse non versatile ma comunque varia, serie di miti incentrati intorno al tentato stupro di una giovane donna vergine, spesso una ninfa, da parte di una divinità; per sfuggire alla violenza, la fanciulla va necessariamente incontro a un inevitabile processo di metamorfosi, che la trasforma in un vegetale o in un minerale.
Possiamo citare l’episodio di Apollo e Dafne, che si salva diventando una pianta di alloro, di Pan e Siringa, trasformata in una canna (ridete pure, non mi offendo) usata poi per costruire il flauto suonato dal satiro, di Dioniso e Ametista, che si eterna in una pietra violacea per il colore del vino, tanto amato dal dio, e di infinite altre simili coppie.
Simpatico, nevvero? che il modo peggiore per violare e ferire una donna sia tanto naturale da divenire un archetipo, una sorta di motivo, di tessuto fondamentale e rappresentativo della mentalità corrente, un luogo comune. Se un uomo si invaghisce di una donna, è del tutto normale che tenti di possederla ricorrendo alla forza, ed è altrettanto normale che lei non possa far altro che fuggire.
Attenzione anche a questo “uomo”, peraltro, perché più che di uomo dovremmo parlare di dio, e non solo di un rustico dio dalle zampe di capra come Pan, che è tradizionalmente associato alla sessualità, soprattutto se sfrenata, maschile e ai riti fallici, ma anche di un dio come Apollo, emblema della razionalità, patrono della musica e della medicina, bellissimo e splendente di luce solare. Insomma, qualunque tipo di ricchezza interiore e di superiorità culturale scade meravigliosamente nel nulla cosmico se comparato agli impulsi primari che agitano un uomo: Ovidio (autore romano che recupera il patrimonio mitico greco) farà cominciare Apollo con “sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; io sono colui che rivela futuro, passato e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra” per poi terminare su ben altre note “Ma il giovane divino non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo, come un cane di Gallia con una lepre”.
Paradisiaco. Mirabile.
Ma spostiamo un attimo il focus de nostro discorso sulla figura femminile. Come abbiamo accennato, si tratta novantanove casi su cento di una vergine, e sull’importanza della verginità femminile conviene soffermarci ancora un poco. Anzitutto per comprendere come essa, al contrario di quanto venga oggi percepito, fosse nella società che stiamo tratteggiando segnacolo di un’indole straordinariamente forte, lucida e indipendente. Basti dare un rapido sguardo alle due principali dee vergini, per scelta, del pantheon greco: Artemide, invincibile cacciatrice che abita e percorre le foreste con un seguito di sole donne, e Atena, stratega militare nata già adulta e armata, preziosa alleata di eroi e glaciale razionalista. La decisione di queste donne di non avere rapporti sessuali non le rende certo meno mature, meno degne e nemmeno le priva della loro femminilità: molti sono gli uomini che ne restano ammaliati, ma così ponderato e solenne è il voto preso da non consentire deroga alcuna.
La verginità è certamente una virtù che va custodita e protetta, e ne sia prova il fatto che era imposta a molti collegi sacerdotali femminili sia greci sia romani, uno su tutti quello delle Vestali, sacerdotesse di Estia/Vesta che a Roma godevano di un prestigio secolare, oltre che di un margine di manovra inusuale in ambito giuridico e sociale (erano le uniche donne a poter fare testamento, a testimoniare nei processi e a vivere senza essere sottoposte alla patria potestas; niente a che vedere con le successive monache cristiane, a cui verrà prescritta nientemeno che la clausura).
Proteggere questo speciale corpuscolo d’autonomia, dunque, diviene un imperativo per la giovane vergine, proteggerlo da chiunque tenti di trafugarlo, fosse anche il bell’ Apollo in persona. E per fare questo si rende necessario adottare ogni misura possibile. Si rende necessario rinunziare a quel corpo che è causa e origine della tentata violenza (Dafne implorerà “trasforma e smarrisci questa bellezza che ha acceso un amore eccessivo”) per incarnarsi in qualcosa che sia espressione del proprio vero, autentico valore.
In qualcosa di tanto puro, nobile e prezioso da venir riconosciuto perfino dallo stesso aggressore: l’alloro con cui cingere il capo di poeti e atleti, la canna con cui respirare la musica, la gemma con cui raggiungere la spiritualità e la magia. Alla fine, l’uomo celebra pubblicamente la dignità di ciò che ha perso. E quando se ne impadronisce, cogliendolo o accarezzandolo, non è più per tentare di possederlo, ma per farne dono al mondo.
Come conciliare, però, questo morbido finale con l’inizio brutale, bestiale, primitivo? Proprio comprendendo come il mito sia elaborato spontaneo ma non immediato di una civiltà e di una cultura che sublima i propri istinti (l’aggressività, la paura, il desiderio) in qualcosa di più complesso. Nella grande “confezione” mitica non va a finire un esatto duplicato dell’uomo, ma una sua rappresentazione, una narrazione della sua storia, che contempli l’evoluzione dalle sue pulsioni più viscerali ai risultati emotivi, psicologici, mentali più ideali. Perciò è chiaro che nel mito lo stupro sia normale, perché sostanzialmente è inevitabile, in una società come quella greca più arcaica; ma non per questo deve essere anche giusto. Lo stupro è qualcosa che si può esprimere, ma non giustificare. Non perdonare.
E, in ultimo, non scordiamo come si stia sempre parlando di uno stupro tentato, di una violenza mai davvero consumata: alla fine, l’uomo proprio non riesce a imporsi sul corpo femminile, a incarcerarne la fluida potenza in divenire; e resta così a mani vuote, o, al massimo, aggrappato a qualche manciata di foglie.

In copertina: “Nel tepidario” di Alma Tadema

29/03/2022

Articolo a cura di

Maddalena Mandelli

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